Battaglie In Sintesi
18 Luglio 390 a.C.
Condottiero (regulus, secondo Livio V XLVIII 8) dei Galli che nel 390 a. C. conquistarono Roma; acconsentì a ritirarsi in cambio di un tributo, ma durante la pesatura dell'oro aggiunse al peso pattuito quello della propria spada esclamando " Vae victis ". Onde i Romani sdegnati ripresero le armi, e guidati da Camillo affrontarono e sterminarono gli invasori. La sconfitta di Brenno è ricordata in Pd VI 43-44, dove al personaggio, che la tradizione considera espressione tipica dell'arroganza barbarica e del sopruso brutale, si contrappone vittoriosamente l'aquila romana, emblema di sapienza civile e di giustizia. Vedi anche Cv IV V 18, Mn II IV 7.
Antichissima stirpe patrizia romana che faceva risalire la propria origine a Ercole. Da essa prese il nome la tribù Fabia, istituita secondo la tradizione insieme con le altre tribù rustiche nel 494 a. C. Alla gente Fabia è legato il culto del primitivo dio Luperco. Ai Fabii e ai Quintili o Quinzi appartennero sempre ed esclusivamente dapprima i dodici sacerdoti preposti a questo culto, che si collega con la leggenda delle origini di Roma e continuò a essere celebrato nelle feste dei Lupercali per tutta la repubblica e per tutto l'impero sino alla fine del sec. V. d. C. Da fodere (scavare) o fobea (fossa) e da faba (fava) gli antichi fanno derivare il nome Fabio. Fin dai primissimi tempi della repubblica i Fabii sono a capo dello stato e sono sempre stati i più celebrati fra le nobili genti romane per il gran numero di magistrature da loro ricoperte e ancor più per le loro grandi imprese di guerra e di pace. Ovidio (Fast., I, 606) riferisce che la gente Fabia si chiamò Massima per i suoi meriti. Nelle guerre contro gli Etruschi molto spesso un Fabio appare come duce dei Romani e per sette anni di seguito, dal 485 al 470, è registrato nei fasti un console Fabio. Poi per undici anni, dal 478, il nome dei Fabii scompare dai fasti e nel 477 gli annalisti pongono la battaglia del Cremera dove si dice avvenisse la strage dei 300 Fabii. In pieni tempi storici il cammino glorioso di questa gente s'inizia con Q. Fabio Rulliano, l'eroe delle guerre sannitiche, chiamato Massimo ed eletto console per quattro volte (322-310-308-297). Era suo padre M. Fabio Ambusto console nel 360, 356, 354. A questo ramo appartiene Q. Fabio Massimo Verrucoso, il Temporeggiatore, console per quattro volte, censore nel 230, dittatore nel 217, il famoso avversario di Annibale. Non molto tempo dopo la guerra d'Annibale il tronco principale della gente Fabia minacciò d'estinguersi, e perciò Q. Fabio Massimo, pretore nel 180, adottò un figlio di L. Emilio Paolo che prese il nome di Q. Fabio Massimo Emiliano, e un figlio di Cn. Servilio Cepione, che si chiamò Q. Fabio Massimo Serviliano e fu console nel 142, censore nel 120. Questi due membri delle nobili stirpi degli Emili e dei Servili continuarono la discendenza della gente Fabia. Il ramo di Q. Fabio Massimo Serviliano si estinse presto, quello di Q. Fabio Massimo Emiliano è rappresentato ancora nell'impero da tre consoli: Paolo Fabio Massimo console nell'11 a. C., Africano Fabio Massimo console nel 10 a. C. e Paolo Fabio Persico console nel 34 d. C. Paolo Fabio Massimo fu particolarmente noto per la sua signorilità e per la sua cultura. Orazio gli dedicò un'ode (Carm., IV,1) e Augusto gli fu amico. Egli divenne anche parente dell'imperatore, sposando Marcia, figlia di L. Marcio Filippo console nel 35 a. C. e di Azia, sorella di Azia madre di Augusto. Poco dopo la gente dei Fabii si estinse.
Una volta espulso quel cittadino (Marco Furio Camillo) la cui presenza, se qualcosa di questa vita può mai dirsi certo, avrebbe impedito la presa di Roma, proprio mentre il giorno della catastrofe si faceva sempre più vicino, da Chiusi arrivarono degli ambasciatori a chiedere aiuti contro i Galli. Tradizione vuole che questa gente, attratta dalla dolcezza delle messi e soprattutto del vino - di cui allora non conoscevano il piacere -, abbia attraversato le Alpi e si sia stanziata nelle terre un tempo coltivate dagli Etruschi. A inviare quel vino in Gallia sarebbe stato Arrunte di Chiusi col preciso intento di attirarne la popolazione per vendicarsi di Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, nonostante ne fosse stato il tutore. E Lucumone era un giovane così potente che costringerlo a pagare per le sue colpe era impossibile senza ricorrere a un aiuto esterno. Pare quindi che fu Arrunte a guidare i Galli attraverso le Alpi e a suggerire loro di attaccare Chiusi. Io non voglio certo negare che i Galli siano stati portati a Chiusi da Arrunte o da qualche suo concittadino: ma è ormai assodato che i primi a valicare le Alpi non furono quei Galli protagonisti dell'assedio di Chiusi. Infatti i Galli erano scesi in Italia duecento anni prima dell'assedio di Chiusi e della presa di Roma e non furono gli abitanti di Chiusi i primi Etruschi contro i quali i Galli combatterono, perché molto tempo prima i loro eserciti si scontrarono numerose volte con gli Etruschi che abitavano tra le Alpi e gli Appennini. Prima dell'egemonia romana, la potenza etrusca si estendeva largamente per terra e per mare. Per comprendere le reali dimensioni di questo dominio sui due mari che cingono a nord e a sud l'Italia rendendola simile a un'isola, basta guardare ai nomi con i quali li si designa: le popolazioni italiche, infatti, chiamarono l'uno Mare Etrusco e l'altro Atriatico dalla colonia etrusca di Atria. I Greci li chiamano invece Tirreno e Adriatico. Gli Etruschi si stabilirono nelle terre situate lungo i litorali di entrambi i mari in gruppi di dodici città, prima al di qua dell'Appennino verso il Mare Tirreno, poi mandando oltre l'Appennino altrettante colonie quante erano i ceppi d'origine, ed esse andarono ad occupare tutta la zona situata al di là del Po fino alle Alpi, eccetto l'angolo di costa adriatica abitato dai Veneti. Anche alcune popolazioni alpine sono di origine etrusca, soprattutto i Reti che, inselvatichitisi per la natura stessa dei luoghi, non hanno conservato quasi nessuna delle caratteristiche antiche, salvo forse l'inflessione della parlata, e neppure questa priva di contaminazioni. Le notizie che abbiamo circa la migrazione dei Galli in Italia sono queste. Durante il regno di Tarquinio Prisco a Roma, i Celti - che sono uno dei tre ceppi etnici della Gallia - si trovavano sotto il dominio dei Biturigi i quali fornivano un re al popolo celtico. In quel tempo il re in carica era Ambigato, uomo potentissimo per valore e ricchezza tanto personale quanto dell'intero paese, perché sotto il suo regno la Gallia raggiunse un tale livello di abbondanza agricola e di popolosità da sembrare che una tale massa di individui la si potesse governare a mala pena. E siccome Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da quell'eccesso di presenze, annunciò che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i due intraprendenti figli di sua sorella, a trovare quelle sedi che gli dei, per mezzo degli augurii, avrebbero loro indicato come appropriate. Erano autorizzati a convocare tutti gli uomini che ritenevano necessari all'operazione, in maniera tale che nessuna tribù potesse impedir loro di stanziarsi nel luogo prescelto. La sorte assegnò allora a Segoveso la regione della selva Ercinia, mentre a Belloveso gli dei concedevano un percorso ben più piacevole, e cioè la strada verso l'Italia. Prendendo con sé gli uomini che risultavano in eccesso tra le tribù dei Biturigi, degli Arverni, dei Senoni, degli Edui, degli Ambarri, dei Carnuti e degli Aulerci, Belloveso si mise in marcia con un ingente schieramento di fanti e cavalieri ed entrò nel territorio dei Tricastini. Là si trovarono di fronte le Alpi: e non c'è affatto da stupirsi che apparissero invalicabili, visto che fino ad allora non c'erano valichi che ne permettessero l'attraversamento (stando almeno alla tradizione storica e se non si vuole credere alle leggende relative alle imprese di Ercole). Là, mentre i Galli, quasi rinserrati tra le alte montagne, si guardavano intorno domandandosi dove mai sarebbero riusciti a passare in un altro mondo al di là di quelle cime che arrivavano a toccare la volta del cielo, vennero trattenuti anche da uno scrupolo religioso perché arrivò la notizia che degli stranieri alla ricerca di terre erano stati attaccati dai Salluvi. Si trattava dei Massiliesi, partiti via mare da Focea. I Galli allora, ritenendolo un buon auspicio per il proprio futuro, li aiutarono, senza trovare resistenza nei Salluvi, a fortificare il luogo in cui si erano attestati subito dopo lo sbarco. Attraversarono quindi il territorio dei Taurini e valicarono le Alpi nella zona della Dora. Poi, dopo aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, e saputo che il punto in cui si erano accampati si chiamava "territorio degli Insubri" (nome identico a quello del cantone abitato dagli Edui), considerarono questa coincidenza un segno beneaugurale del destino e fondarono in quel luogo una città che chiamarono Mediolano.
Subito dopo, un'altra ondata di Galli - questa volta Cenomani guidati da Etitovio - seguì le orme dei predecessori e, dopo aver valicato le Alpi nello stesso punto con l'appoggio di Belloveso, si andò a stanziare là dove oggi si trovano le città di Brescia e Verona. Dopo di loro, Libui e Salluvi si stabilirono presso l'antico popolo dei Liguri Levi che vive nelle vicinanze del fiume Ticino. Quando poi Boi e Lingoni superarono le Alpi Pennine e trovarono che tutte le terre comprese tra il Po e le Alpi stesse erano già state occupate, attraversarono il Po a bordo di zattere e scacciarono dalle loro terre non solo gli Etruschi ma anche gli Umbri, senza però spingersi al di là degli Appennini. Fu allora che i Senoni, gli ultimi Galli a invadere la penisola, occuparono la zona compresa tra i fiumi Montone ed Esino. E stando a quanto mi risulta, fu proprio questa la popolazione gallica che si riversò su Chiusi e di là su Roma. Rimane incerto se fossero soli oppure ebbero aiuti da tutte le tribù della Gallia Cisalpina. Gli abitanti di Chiusi, atterriti da questo strano conflitto, quando si trovarono di fronte quella massa di uomini dalle caratteristiche somatiche e dalle armi mai viste prima, sentendosi ripetere che quelle stesse orde avevano già più volte sbaragliato le legioni etrusche da una parte e dall'altra del Po, pur non avendo coi Romani alcun vincolo di alleanza e di amicizia (salvo forse il fatto di non essere intervenuti a fianco dei consanguinei di Veio nella lotta contro il popolo romano), inviarono ambasciatori a Roma per chiedere aiuto al senato. Non riuscirono a ottenere nessun aiuto, ma i tre figli di Marco Fabio Ambusto vennero inviati in qualità di ambasciatori per trattare coi Galli, a nome del senato e del popolo romano, affinché questi ultimi non attaccassero gli alleati e gli amici del popolo romano, dai quali non avevano ricevuto alcun torto. Se le circostanze lo richiedevano, i Romani erano pronti a difendere gli alleati e amici, anche a costo di affrontare un conflitto. Ma siccome era parso più opportuno evitare, se possibile, la guerra, Roma avrebbe preferito fare la conoscenza di quel nuovo popolo - cioè i Galli - in una maniera pacifica piuttosto che col ricorso alle armi. Il messaggio aveva un tono conciliante, ma era affidato ad ambasciatori arroganti e più simili a Galli che a Romani. Quando i Galli li ebbero uditi esporre le loro disposizioni in mezzo all'assemblea, risposero che, pur non avendo mai sentito prima il nome dei Romani, li ritenevano dei guerrieri valorosi perché gli abitanti di Chiusi ne avevano invocato l'intervento nel pieno dell'emergenza. E, siccome i Romani avevano scelto di difendere i propri alleati attraverso un'ambasceria piuttosto che con la spada, non avrebbero disprezzato la pace offerta dai legati, a patto che gli abitanti di Chiusi - i quali possedevano più terra di quanta non ne coltivassero effettivamente - ne avessero ceduta una parte ai Galli che invece ne avevano bisogno. Diversamente, la pace non poteva essere ottenuta. Aggiunsero che desideravano una risposta in presenza dei Romani perché, se veniva loro negata la concessione di appezzamenti di terra, avrebbero combattuto sotto gli occhi dei Romani stessi, affinché potessero tornare in patria a raccontare quanto i Galli fossero superiori per valore a tutti gli altri esseri umani. E quando i Romani chiesero che razza di diritto desse ai Galli l'arbitrio di esigere la terra dai legittimi proprietari ricorrendo alle minacce di guerra e che cosa avessero essi a che fare con l'Etruria, i Galli replicarono brutalmente che il loro diritto risiedeva nella spada e che tutto apparteneva a chi aveva la forza. Così, essendosi inaspriti gli animi da entrambe le parti, si passò alle armi e fu subito battaglia. E mentre ormai si avvicinava inesorabile il giorno fatale di Roma, gli ambasciatori presero le armi contravvenendo al diritto delle genti. La cosa non poté certo passare inosservata perché quei tre dei più nobili e coraggiosi giovani che Roma potesse vantare combattevano tra le prime linee etrusche: a tal punto rifulgeva il loro valore. Anzi, Quinto Fabio, spintosi al galoppo al di là delle prime linee, uccise trafiggendolo nel fianco con l'asta il comandante dei Galli che si stava lanciando impetuosamente contro le schiere etrusche. Mentre Fabio raccoglieva le spoglie del nemico abbattuto, i Galli lo riconobbero e la notizia che si trattava dell'ambasciatore romano fece il giro delle truppe. Lasciata da parte l'ira contro gli abitanti di Chiusi, i Galli fecero suonare la ritirata, proferendo minacce all'indirizzo dei Romani. Alcuni erano dell'avviso di marciare immediatamente contro Roma. Ma prevalse la tesi dei più anziani di mandare prima degli ambasciatori a Roma col compito di protestare per le offese subite e di chiedere la consegna dei Fabii in quanto colpevoli di aver violato il diritto delle genti. Quando gli inviati dei Galli ebbero esposto le proprie rimostranze secondo le istruzioni ricevute, il senato si trovò a disapprovare la condotta dei Fabii e riteneva che le richieste avanzate dai barbari fossero un loro pieno diritto. Ma il desiderio di non dispiacere a una famiglia di alta nobiltà impedì che si propendesse per la decisione che era parsa più opportuna. Così, per evitare che la responsabilità di un'eventuale sconfitta nella guerra contro i Galli potesse ricadere su loro stessi, i senatori affidarono al popolo il giudizio sulle richieste dei Galli. E in quella sede l'influenza dei Fabi e le loro ricchezze ebbero tanto peso che gli uomini di cui si discuteva l'eventuale punizione vennero eletti tribuni militari con potere consolare per l'anno successivo. Di fronte a questo verdetto, i Galli, com'era più che giusto, tornarono inferociti dai compagni lanciando esplicite minacce di guerra. I tribuni militari eletti insieme ai tre Fabii furono Quinto Sulpicio Longo, Quinto Servilio (per la quarta volta) e Publio Cornelio Maluginense.
Incombeva un disastro di enormi proporzioni. Eppure (a tal punto la Fortuna arriva ad accecare le menti dei mortali quando non vuole resistenze ai suoi violenti colpi), la città che contro Fidenati e Veienti e altri popoli dei dintorni in molte occasioni era ricorsa alla nomina di un dittatore, ora, contro un nemico mai visto e sentito nominare prima, che le muoveva guerra dagli angoli più remoti della terra e dall'Oceano, quella stessa città non si cercò un comandante, un aiuto eccezionale. Chi dirigeva le operazioni erano quei tribuni per la cui temerarietà si era arrivati allo scontro armato: alla leva militare essi dedicarono l'attenzione che di solito era tipica delle campagne di ordinaria amministrazione, arrivando addirittura a ridimensionare la gravità del conflitto. Nel frattempo i Galli, non appena saputo che agli uomini responsabili di aver violato il diritto delle genti erano toccate cariche pubbliche e che l'ambasceria inviata era stata presa in giro, infiammati dall'ira (sentimento che quel popolo non riesce assolutamente a dominare), tolsero immediatamente il campo e si misero in marcia a tappe forzate. Siccome la loro avanzata velocissima e tumultuante faceva correre alle armi le città atterrite e costringeva alla fuga gli abitanti delle campagne, dovunque passavano i Galli gridavano a gran voce che loro marciavano contro Roma: con i cavalli e con le schiere di fanti spiegate sul terreno arrivavano a coprire immensi spazi in lungo e in largo. Il celere sopraggiungere dei nemici, pur essendo stata preceduta da voci e dai messaggeri prima da Chiusi e poi dalle altre città, gettò Roma in un terrore così forte che ad affrontare i Galli venne inviato ad appena undici miglia dalla città - là dove il fiume Allia, scendendo dai monti Crustumini in una gola profonda, si getta nel Tevere poco sotto la strada - un esercito più o meno improvvisato e raccolto in fretta e furia.
Quanto al numero dei combattenti, si dice che i Romani erano 40.000; ma non dobbiamo davvero immaginarci che i Romani disponessero allora di forze anche lontanamente simili a quelle con cui affrontarono Pirro o Annibale. Computi statistici ci persuadono che difficilmente essi possono aver disposto di più di 10 o 15.000 uomini, di cui in nessun caso più di 10.000 di fanteria pesante. Dei Galli si dice che erano 70.000, numero senza dubbio assai esagerato; ma forse non si allontana molto dal vero la notizia che, prima di iniziare la marcia contro Roma, essi erano 30.000. E appunto questa notevole superiorità numerica, insieme con la sorpresa dei Romani per l'audacia impetuosa e pel modo di combattere dei barbari, spiega la disfatta.
Ogni punto di quella zona straripava ormai di nemici che, essendo inclini per natura a schiamazzi inutili, con urla spaventose e versi di vario genere riempivano l'atmosfera di un orrendo frastuono. Lì, i tribuni militari, senza aver scelto in anticipo uno spazio per il campo e senza aver allestito una trincea che potesse fungere da riparo in caso di ritirata, dimentichi, per non dire degli uomini, anche degli dei, non essendosi minimamente preoccupati di trarre i dovuti auspici e di offrire sacrifici augurali, schierarono l'esercito scegliendo una disposizione ad ali molto allargate per evitare di essere circondati dalla massa dei nemici. Ciò nonostante, il fronte non raggiunse l'estensione di quello avversario, mentre l'assottigliarsi dei ranghi nella parte centrale dell'esercito rese debole e poco compatto quel settore. Sulla destra c'era un piccolo rilievo del terreno: i Romani decisero di occuparlo con truppe di riserva, manovra questa che segnò l'inizio del panico e della fuga e insieme costituì l'unica salvezza per i fuggitivi. Infatti Brenno, il capo dei Galli, temendo che l'esiguo manipolo di nemici mascherasse uno stratagemma, e pensando che i Romani avessero occupato quell'altura per permettere ai contingenti di riservisti di assalire il nemico al fianco e alle spalle non appena i Galli avessero attaccato frontalmente lo schieramento romano, operò una conversione e si diresse contro i riservisti. Era sicuro che, se fosse riuscito a sloggiarli dalla posizione occupata, lo strapotere numerico dei suoi effettivi non avrebbe avuto difficoltà a ottenere la vittoria nello scontro in pianura. A tal punto dalla parte dei barbari c'era non solo la buona sorte ma anche la tattica militare. Dall'altra parte dello schieramento non c'era nulla che assomigliasse a un esercito romano, né a livello di comandanti né a livello di soldati. Il terrore e il pensiero della fuga uniti alla totale dimenticanza di ogni cosa ne avevano ormai pervaso gli animi a tal punto che la maggior parte delle truppe, nonostante l'ostacolo costituito dal Tevere, si precipitò a Veio (una città nemica) anziché fuggire direttamente a Roma tra le braccia di mogli e figli. L'altura protesse per un po' di tempo i riservisti. Ma nel resto dello schieramento, non appena l'urlo dei Galli arrivò dal fianco alle orecchie dei più vicini e da dietro ai più lontani, i Romani, quasi ancor prima di vedere quel nemico mai incontrato in precedenza e senza non dico tentare la lotta, ma addirittura senza far eco al grido di battaglia, si diedero alla fuga integri di forze e illesi. In battaglia non ci furono vittime. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio perché, nel disordine della fuga, si intralciarono reciprocamente combattendo gli uni contro gli altri. Sulla riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell'ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu un immenso massacro: moltissimi, non sapendo nuotare o stremati, gravati dal peso delle corazze e dal resto dell'armamento, annegarono nella corrente.
Il grosso dell'esercito riuscì invece a riparare sano e salvo a Veio. E di lì non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno la notizia della disfatta. Gli uomini schierati all'ala destra, che si era mantenuta lontana dal fiume in un punto più vicino alle pendici del monte, si diressero in massa a Roma e lì, senza nemmeno preoccuparsi di richiudere le porte, ripararono nella cittadella. Ma anche i Galli, attoniti di fronte a quella vittoria miracolosa ottenuta in maniera così repentina, rimasero sulle prime immobili per lo sbigottimento, come se non riuscissero a capacitarsi di quanto era successo. Poi cominciarono a temere l'eventualità di un'imboscata. E infine si misero a spogliare i caduti, accatastando, com'era loro abitudine, le armi che trovavano. Alla fine, dopo aver rilevato che negli immediati dintorni non c'erano tracce del nemico, si misero in marcia e poco prima del tramonto raggiunsero la periferia di Roma.